Intervista a Mauro Balboni, ex-dirigente nel settore agroindustriale e autore de “Il Pianeta Mangiato”
Nel tuo libro “Il Pianeta Mangiato” – Dissensi editore – esamini l’evoluzione del nostro sistema alimentare e le prospettive per il futuro. Cosa dobbiamo aspettarci?
Le stesse fonti ufficiali, come la FAO, ci forniscono indicatori probanti relativi alla insostenibilità dell’attuale modello agroalimentare: dalla perdita di terreno fertile (24 miliardi di tonnellate ogni anno, secondo la FAO) allo stress idrico che ormai impatta grandi regioni agroalimentari fino al rischio desertificazione, allo spreco alimentare; e poi il paradosso dei paradossi, quello di un’agricoltura trasformata in macchina per la produzione di calorie a basso costo, con 2 miliardi di esseri umani sovrappeso o obesi, a fronte degli 800 milioni di affamati e al più generale problema della denutrizione nelle sue varie forme. Ma non esiste, al momento, un modello alternativo scientificamente provato, spendibile politicamente e soprattutto dotato della scala di impatto necessaria ad un cambiamento inclusivo. Intanto, il mercato deregolato corre: nel 2050 saremo in 6 miliardi e mezzo di “mangiatori urbani” (il doppio di oggi) a consumare sempre più calorie e proteine prodotte con metodi che hanno funzionato negli ultimi 70 anni ma potrebbero non funzionare in futuro.
Ci sono soluzioni semplici per cambiare direzione o è estremamente complesso come sembra a chi non è esperto della materia?
No, non ci sono soluzioni semplici. Il Pianeta Mangiato, richiamandosi alla Teoria dei Limiti Planetari, ricorda quanto sia esteso e interconnesso l’impatto negativo che la produzione del cibo ha sugli ecosistemi planetari e sul loro funzionamento. Una delle leggi fondamentali dell’Ecologia di Barry Commoner dice proprio: «tutto è correlato a tutto il resto». Idealizzare il ritorno a “buone contrade rurali” di un felice tempo pre-industriale, oppure mitizzare scelte alimentari monotematiche, potrebbe oggi essere addirittura pericoloso, oltre che inutile. Così come lo è una politica incapace di visione, disperatamente costretta ad investire la propria immagine sui successi agroalimentari di ieri; forse addirittura incapace di comprendere la reale portata del problema.
Quali sono i primi tre punti che suggeriresti di affrontare urgentemente?
Primo: oggi la relazione più pericolosa è quella tra produzione del cibo e cambiamento climatico. La produzione del cibo con i metodi attuali è responsabile (secondo FAO, UNEP e altre agenzie) del 30% delle emissioni umane di gas-serra: mitigare questo è un impegno drammaticamente urgente e gigantesco, visto che implementare gli accordi per il clima – stipulati da quasi 200 paesi della Terra a Parigi nel 2015 – comporterebbe che il sistema agroforestale globale non abbia più emissioni nette di gas-serra entro il 2050.
Secondo: la preparazione della resilienza delle nostre catene alimentari al cambiamento climatico che, più o meno grave a seconda di quanto i dati reali confermeranno le proiezioni dei modelli matematici, è comunque già in atto.
Terzo: l’attacco alla malnutrizione in tutte le sue forme.
Fonti alternative e sostenibili di proteine come gli insetti commestibili possono aiutarci concretamente a nutrire una popolazione globale in continua crescita?
Assolutamente. Sarà necessario anche per queste la valutazione dell’impatto climatico e sulle risorse lungo tutta la filiera produttiva, ma le ritengo una grande risorsa potenziale. D’altra parte, due miliardi di esseri umani se ne nutrono già ora senza problemi. Leggo dichiarazioni che ne aumentano l’interesse, per esempio quelle del Prof. Van den Ende dell’Università di Wageningen, in Olanda: per l’alimentazione degli animali domestici ricaviamo oggi una tonnellata di proteina da un ettaro di soia; ma se quell’ettaro “producesse” cavallette, di tonnellate di proteine ne ricaveremmo 150 (National Geographic, settembre 2017). Ottenere proteine dagli insetti offre prospettive interessanti di “liberare” dalla nostra pressione agricola tradizionale (campi coltivati e pascoli) vaste porzioni di territorio terrestre, ripristinando le funzioni originali di quegli ecosistemi.
Domanda banale: siamo ancora in tempo per correggere le distorsioni?
Il tempo è poco.
Secondo la FAO, al ritmo di degradazione del terreno fertile degli ultimi 40 anni, fra altri 60 non ce ne sarà rimasto più. Anche le previsioni modellistiche sul cambiamento climatico sono impietose, e puntate su un aumento della temperatura media superficiale di 3.5 ºC, entro fine secolo, rispetto ai valori pre-industriali (gli scienziati ci hanno ammonito a non superare i 2ºC). I megatrends agroalimentari che esploro nel Pianeta Mangiato (aumento demografico, inurbamento senza precedenti nella storia umana, esplosione di consumi di cibo trasformato e proteine animali convenzionali) sono in atto e difficilmente saranno fermati (soprattutto perché politicamente non è conveniente farlo). Ma è proprio pensando al mondo di domani, quello senz’acqua e senza terra fertile, con geografie agroalimentari molto diverse da quelle di oggi, che prospettive come la produzione di proteine dagli insetti acquistano valore e vanno esplorate senza dilazioni.