Intervista con Chef Luciano Monosilio, Ristorante Pipero Roma
Ti definiscono “lo chef che viene dal futuro”, questa definizione ti rappresenta?
È un appellativo che mi fa sorridere, quasi mi ricorda il titolo di un film, anche se terrei a fare alcune precisazioni. Mi ritengo principalmente uno chef che “viene dal presente”, un presente ben radicato, il territorio da cui provengo è parte integrante fondamentale della mia cucina. Fortunatamente il mio carattere dinamico e curioso mi ha aiutato a non fermarmi solo al “qui ed ora”: cerco di documentarmi il più possibile sulle altre cucine, mi interrogo sulle differenze, ne studio le analogie e cerco di proporre sapori, tecniche e accostamenti nuovi. A tal proposito non ho certamente paura di rischiare e sperimentare nuovi ingredienti in cucina. Forse mi definirei più “lo chef che guarda al futuro”.
Come si riesce a far convivere in cucina futurismo e tradizione?
Ti rispondo con una metafora sui generis, quella dell’albero, sintetizzata nei due menu che propongo al ristorante (Pipero Roma, ndr): Radici e Rami. Radici è un percorso dei piatti della tradizione della mia cucina, le origini, ciò a cui saremo sempre legati e che ci fa da zoccolo duro per la nostra crescita, come la mia celebre carbonara. Rami è un percorso di piatti in continua evoluzione, con elementi innovativi, provocazioni e cenni di futurismo. Ecco credo che futurismo e tradizione possano coesistere esattamente in questo modo: portare sempre con sé il proprio bagaglio primario e farne le fondamenta sulle quali sentirsi liberi di spaziare e cercare di vedere possibilmente più in là.
Quanto conta l’utilizzo di nuovi (o inusuali) ingredienti nella creazione di un nuovo piatto?
Credo che il processo creativo di uno chef muova soprattutto dalla ricerca: non smetto mai di ripetere quanto sia fondamentale lo studio e la tecnica in cucina. Bisogna poi saper cogliere i trend più all’avanguardia, frutto soprattutto dei melting-pot culturali, e sperimentare sia in linea temporale che spaziale -attingendo dal passando o provando ad anticipare il futuro, andando alla scoperta di ingredienti e preparazioni proprie di altre culture.
Sappiamo che hai recentemente collaborato con il Pastificio Felicetti per realizzare della pasta con farina di grillo, come è nata l’idea?
Viaggio spesso in Asia per lavoro e ho la possibilità di assaggiare la vera “cucina del posto”, il cui eco a noi arriva molto flebile e fondamentalmente mediato dai nostri gusti occidentali. La scorsa estate, ad Hanoi in Vietnam, mi sono stati serviti dei grilli fritti. Impensabile in un locale italiano – non solo perché la normativa non lo consente – ma soprattutto perché alla vista è decisamente d’impatto. Ho pensato, quindi, che per provare a replicare questo prodotto avrei dovuto utilizzare un’altra forma, o meglio, un veicolo intermediario. Ho pensato all’elemento cardine della nostra cultura italiana, la pasta, che conserva una struttura a noi familiare, mentre cela un contenuto nuovo. Il gioco è presto fatto: ordinata della farina di grilli da un allevamento italiano, ho coinvolto il pastificio Felicetti come supporto tecnico e abbiamo fatto un esperimento nei laboratori del gruppo Pavan. Il risultato di questa prima prova direi che è stato più che soddisfacente.
Che differenze hai notato tra la pasta di grano e quella con farina di grillo?
Ad oggi non siamo ancora riusciti ad avere una pasta al 100% composta da farina di grillo, ne abbiamo realizzata una versione con una percentuale del 20% (mentre per il restante è composta da semola di grano duro). È un prodotto discreto, ricorda una pasta di grano saraceno, con una texture ruvida e leggermente puntinata, con un gusto intenso e un finale lievemente tostato. Dal punto di vista nutrizionale ha un contenuto altamente proteico. Come primo esperimento abbiamo notato che ci sono diversi elementi da perfezionare: rispetto alla pasta tradizionale ha una consistenza troppo farinosa e non tiene in maniera ottimale la cottura. Forse c’è un po’ di lavoro da fare sul processo di molitura della farina di grillo affinché la resa sia più asciutta, fina e meno oleosa. Probabilmente occorrerà operare una ricerca approfondita anche sullo spessore della trafila e sul formato più adatto.
Pensi che gli insetti commestibili diventeranno ingredienti comuni nei nostri piatti del futuro?
È molto probabile che in futuro prossimo l’avvicinamento al mondo degli insetti commestibili aumenti, stimolato dalla curiosità del loro sapore e dai vantaggi di eco-sostenibilità dei loro allevamenti (rispetto agli allevamenti tradizionali). Il vero problema sarà sensibilizzare le culture non avvezze a questo tipo di alimentazione a superare la barriera del “disgusto” che fino ad oggi è stata il deterrente decisivo al loro utilizzo in cucina.
A tuo parere gli italiani sono pronti ad accettare un alimento così distante dalla loro tradizione culinaria?
Sebbene da ormai diversi anni notiamo un discreto interesse per la cultura dell’entomofagia, credo che per qualunque occidentale resti un argomento tabù, almeno per il momento, in particolar modo per gli italiani, storicamente così legati alla propria dieta mediterranea. È molto lontana l’idea che possa avvenire una sostituzione (ad esempio tra farina di grilli e farina di grano) e francamente non credo sia corretto, anzi è un bene preservare e difendere le proprie tradizioni. Più probabilmente vedremo un lento e graduale accostamento di alimenti differenti, come ingredienti a base di insetti o insetti stessi, più probabilmente legato a qualche segmento di mercato particolare maggiormente attento al contenuto proteico del cibo (ad esempio gli sportivi).