Ho avuto il piacere di intervistare la Dott.ssa Silvia Cappellozza, che si occupa di bachicoltura e gelsicoltura; per il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria (CREA) è responsabile delle collezioni di germoplasma di baco da seta e della produzione del seme-bachi poliibrido sperimentale che viene distribuito agli agricoltori italiani che desiderano intraprendere l’allevamento.
Assieme ai colleghi dell’Università di Padova e del CRA-API sta portando avanti l’attività per il miglioramento genetico nel baco da seta, l’allevamento su substrato artificiale e la selezione di ceppi per la produzione del seme-bachi.
In questi ultimi anni si è anche occupata di entomofagia ed è stata responsabile di uno dei tavoli tecnici finalizzati alla redazione del “Libro bianco sugli insetti commestibili” nell’ambito delle iniziative per EXPO 2015. Ha fatto parte della consultazione internazionale di esperti FAO riunitasi a Roma nel 2012 per studiare l’argomento.
Ci può raccontare come si è avvicinata al mondo della bachicoltura?
E’ una tradizione di famiglia. Mio padre, ex-direttore della sede in cui sono ricercatrice, mi ha trasmesso fin da bambina la curiosità e l’amore per la natura e il mondo meraviglioso del baco da seta.
Lei si occupa di gelsi-bachicoltura per il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’ analisi dell’Economia Agraria (CREA), ci può descrivere il progetto e le sue caratteristiche?
Il mio progetto in realtà parte da molto lontano e ha varie articolazioni. Io mi sono avvicinata alla bachicoltura all’inizio degli anni ‘90, quando nel Nord Italia era impossibile praticarla per motivi d’inquinamento ambientale da parte di un insetticida regolatore di crescita; era utilizzato sui frutteti e arrivava per deriva sulla foglia di gelso. La situazione contingente mi ha portato, da un lato, a occuparmi dell’effetto delle sostanze ormono-simili sul baco da seta, dall’altro a studiare un mangime artificiale (dieta) che rendesse possibile l’allevamento svincolato dalla foglia del gelso. Su tale argomento ho realizzato due brevetti assieme al mio team. Poiché, però, l’industria italiana della seta sembrava poco interessata a sviluppare una produzione nazionale, ho cercato di sfruttare queste conoscenze nel campo biomedico, cioè per le applicazioni delle due proteine contenute nel bozzolo (sericina e fibroina), lavorando in particolare con una ditta tedesca specializzata nel settore. Per rispondere alle richieste del settore biomedico ho approcciato le tecniche di transgenesi del baco da seta, allo scopo di produrre seta modificata per proprietà particolari di tipo tecnologico; recentemente nel mio Istituto sono state realizzate linee di baco capaci di produrre nella seta alcuni antimicrobici naturali (cecropina e moricina) che potrebbero sostituire o coadiuvare altre sostanze antibiotiche nella cura di infezioni batteriche. La mia collaborazione con le ditte biomediche e le start-up innovative si è andata sempre più allargando, ma nel frattempo si erano verificate le condizioni ambientali (messa al bando dell’insetticida responsabile della sindrome della mancata filatura del baco da seta) per ricominciare a fare gelsibachicoltura sul territorio nazionale. Ho cercato di coinvolgere gli ultimi bachicoltori rimasti in Veneto in un’attività per la produzione di bozzolo per finalità cosmetiche-farmaceutiche e una ditta del milanese, in collaborazione con noi, ha realizzato un dispositivo medico con le cortecce seriche dei bozzoli.
Sono successivamente stata contattata da un industriale orafo che desiderava creare gioielli di seta e oro e da qui è nato un interessantissimo progetto “La rinascita della via della seta in Veneto”, di cui io e il mio staff siamo stati consulenti tecnici; il progetto è stato sostenuto dalla Regione Veneto e premiato a Bruxelles come migliore fra i progetti innovativi del settore. Questo mi ha portato a lavorare a stretto contatto con le cooperative sociali, partner di progetto, e a capire il valore che la gelsibachicoltura potrebbe avere anche per il recupero delle persone fragili ed emarginate. Nel frattempo ho esplorato l’utilizzo della crisalide (by-product di alcuni prodotti tecnologici fra cui la trattura) per finalità mangimistiche, partecipando, su invito, alla prima consultazione della FAO diretta agli esperti mondiali di entomofagia, nonché alla realizzazione della traduzione italiana del testo “Edible insects”, di prossima pubblicazione.
Il progetto “Rinascita della via della seta in Veneto” mi ha fatto toccare con mano l’interesse di industrie e agricoltori per il ritorno a una produzione di seta completamente “Made in Italy”, certificata, tracciata e biologica, per un insieme di settori applicativi, di cui quello tessile potrebbe anche non essere inizialmente quello più rilevante.
Ultimamente ho cercato di capire come sarà possibile ammodernare le tecnologie produttive inserendo la meccanizzazione in alcuni segmenti della gelsibachicoltura, che rimane al momento un’attività prevalentemente manuale. In questo, naturalmente, collaboro con altri colleghi del CREA esperti del settore, non essendo il mio campo di conoscenza specifica. Anche in questo caso abbiamo già prodotto due brevetti d’innovazione del CREA.
Mi può definire “i numeri” della bachicoltura oggi in Italia e le prospettive a cui puntano i vostri studi?
Oggi la bachicoltura in Italia ha dimensioni molto limitate, potendo contare su una ventina di bachicoltori attivi, localizzati soprattutto in Veneto, ma l’interesse sta crescendo in maniera esponenziale e molti stanno tornando a piantare gelsi e a seguire corsi di formazione sull’argomento (uno si terrà a breve nella nostra sede di Padova e sarà diretto proprio agli imprenditori agricoli residenti in Veneto, essendo stato finanziato dalla nostra Regione). Noi crediamo che il Veneto potrà diventare un laboratorio per riavviare quest’attività e quando avremo studiato un progetto pilota dal punto di vista economico, agronomico e ambientale, questo potrà essere applicato anche in altre regioni, con le variazioni necessarie per adattarlo a condizioni climatiche e territoriali differenti. Io non credo in progetti di grandi dimensioni e finanziati esclusivamente con fondi pubblici. Ne ho visti fallire troppi, in Italia e all’estero. Credo in una crescita ragionata e costante di professionalità e applicazioni, sostenuta dallo sviluppo graduale di tecnologie che al momento sono mancanti, e da un forte interesse di industrie e agricoltori. Sono cosciente anche di limiti strutturali quali il problema di una troppo scarsa produzione di seme-bachi (uova di baco da seta) per il territorio nazionale e la mancanza di tecnici specializzati, e sto lavorando in questo senso con l’Agenzia Veneta per l’Innovazione nel Settore Primario (AVISP) perché tali limiti non diventino colli di bottiglia insuperabili. Fortunatamente ho trovato molto interesse e supporto da parte di questo Ente, con cui collaboro fattivamente, come pure da parte dell’Università di Padova, con cui ho molti progetti comuni che vanno dalla genetica del baco da seta alla valutazione della sostenibilità economica della produzione, fino alla lotta biologica agli insetti dannosi al gelso. Stiamo studiando un’ipotesi di accordo quadro che veda CREA, AVISP, Università di Padova e Provincia di Padova partner di un progetto per l’ampliamento e potenziamento dell’attività istituzionale della nostra sede. La mia unica preoccupazione è che non si diano false speranze agli agricoltori che intraprendono quest’attività e che l’investimento a gelso sia proporzionato alla domanda di bozzolo che è attualmente prevedibile per i prossimi 2-3 anni. Credo, insomma, serva una costante pianificazione che veda protagonisti agricoltori e industria. Nel progetto “Seta etica”, di cui il mio Istituto è consulente tecnico, s’immagina di creare un dialogo tra gli agricoltori organizzati in una rete agricola e una rete di industrie, proprio per fare meglio incontrare domanda e offerta e fare si che l’agricoltore possa vedere remunerata “eticamente” la propria attività, senza dipendere in maniera prevalente da un mercato regolato da pochissimi attori industriali che stabiliscano arbitrariamente al ribasso il prezzo del bozzolo…una utopia…forse…; ma a mio parere anche noi tecnici dobbiamo porci il problema di come la nostra azione agisca per favorire lo sviluppo globale economico e sociale dell’ambiente in cui quegli attori operano.
Ho potuto ultimamente constatare che molti imprenditori riflettono sull’effetto della loro attività sul tessuto sociale ed economico. Credo che questo livello di consapevolezza sia importante e ciò mi incoraggia a perseguire il mio obiettivo.
L’insetto è generatore e rigeneratore della vita vegetale e ispiratore per l’uomo in molti ambiti, mi può dire il suo punto di vista sull’importanza degli insetti per l’uomo?
Io credo che gli insetti siano importantissimi per l’uomo non solo perché rappresentano una delle maggiori fonti di biodiversità, di esempio di adattamento ai vari ambienti e anche di antagonisti nell’utilizzazione del cibo con cui confrontarsi (pensiamo alla difesa delle colture dagli insetti nocivi e di quanto impatto questa pratica abbia sul nostro ambiente), ma perché sono anche una possibile fonte di alimento alternativo e di sostanze nutraceutiche e farmacologiche.
Ritengo che dovremo sempre più confrontarci con loro e passare dalla lotta all’allevamento. Dovremo cercare certamente un punto di equilibrio, che ci farà riconsiderare anche vecchi saperi come nuove sorgenti di conoscenza cui attingere. Basti pensare all’esempio dell’agroforestazione, antico ordinamento colturale, ora rientrata fra le priorità delle nuove politiche agricole europee, grazie alle quali il gelso potrebbe giocare un ruolo fondamentale, tornando a delimitare i nostri campi coltivati.
Quale è stata la sua reazione la prima volta che ha sentito parlare di entomofagia?
Di curiosità. Io sono una ricercatrice e gli insetti mi affascinano e non provo disgusto nei loro confronti. Inoltre, per il mio lavoro ho viaggiato parecchio in Asia e ho assaggiato gli insetti molto prima che si diffondesse la moda dell’entomofagia in Europa.
Quando si parla di insetti come alimenti, molti pensano subito a un cibo di “emergenza”, inteso come unica fonte per molte popolazioni che non hanno scelta. Lei che idea si è fatta?
Che gli insetti potrebbero potenzialmente rappresentare una fonte alimentare per il futuro. Intendiamoci: se non si ripetono gli stessi errori che abbiamo compiuto per la zootecnia. Se non si pensa di alimentare gli insetti con rifiuti derivanti da spazzatura urbana, letame o pollina, pratiche che dovrebbero essere considerate con estrema attenzione dal Legislatore europeo, anche se permesse in altri continenti, perché potenziali fonti di passaggio di pericolosi patogeni dall’uomo/animale, all’insetto e di nuovo all’animale/uomo in una stolta imitazione di ciò che è successo con “la mucca pazza”. Dobbiamo sviluppare un allevamento non troppo intensivo degli insetti (e qui bisogna anche definire cosa significhi, perché gli insetti vivono a milioni in spazi limitatissimi), dove con “non intensivo” intendo: dove non sia necessario applicare antibiotici o disinfezioni chimiche pesanti, in cui si proibisca l’uso di ormoni giovanili, in cui si tuteli la biodiversità locale e non s’importino indiscriminatamente specie esotiche, in cui si impari dagli errori compiuti in passato per “governare” il futuro non lasciando spazi ad affaristi senza scrupoli, senza preparazione ed improvvisati. E su quest’ultimo tema i governi nazionali e la UE hanno grossissime responsabilità e speriamo diano prova di saggezza, senza cedere a pressioni esercitate dalle lobby.
Poi c’è la questione educativa, ma su questo sono fiduciosa, perché abbiamo tutti i mezzi per fare capire alla gente che gli insetti, se correttamente allevati, sono un cibo sano e che ci sono tanti modi “gustosi” per consumarli.
Sapendo che nel sud-est asiatico il baco da seta è una prelibatezza, provi ad immaginare per un secondo di trovarsi catapultata in questo mondo come allevatrice: come mi descriverebbe il baco in genere e poi come alimento?
Forse la stupirò, ma io mi approccio al baco da seta con l’idea che sia un perfetto esempio di “economia circolare”, in cui ogni sottoprodotto di un processo industriale diventa la materia prima per un altro. Per cui non sono affatto convinta che la seta debba essere per forza la prima destinazione del baco, ma che sia uno dei prodotti possibili.
Il baco è prima di tutto un perfetto bioreattore per la produzione di proteine, con un’alta efficienza di trasformazione di ciò che mangia e che è costituito dalla foglia di gelso. La seta (fibroina) è una delle proteine prodotte. Ma la sericina derivata dal processo industriale di sgommatura (trattamento in acqua calda del bozzolo) è un’altra proteina che può essere utilizzata con finalità cosmetiche, biotecnologiche ed anche alimentari. Addizionata alla razione alimentare dei ratti ha dato prova di diminuirne il tasso di colesterolo nel sangue, e di essere benefica nella prevenzione dei tumori del colon, per cui non è detto che non sarà usata un domani anche come additivo alimentare.
La crisalide, ottenuta (nella sua forma più integra) dall’apertura del bozzolo, quando da questo si ricava fibra corta, contiene il 70% di proteine e il 30% di lipidi, fra cui molti acidi grassi insaturi benefici per la salute dell’uomo e da cui si estrae l’olio per la cosmesi e la medicina. E’ da sempre consumata in Oriente, soprattutto in Corea, sia per l’alimentazione dell’uomo sia come mangime. Ma anche le larve liofilizzate del baco da seta, in particolare quelle al secondo giorno della V età, ovvero quelle in cui le ghiandole della seta non sono ancora troppo sviluppate, sono un alimento con caratteristiche nutraceutiche eccellenti poiché contengono una alta concentrazione di un principio attivo contenuto nella foglia di gelso (Deoxinojirimicina) che ha un effetto antidiabetico e antivirale. Da sempre sono consumate dalle popolazioni orientali per contenere il livello di glicemia nel sangue.
La chitina è pure una componente importante dell’esoscheletro, ricavabile in forma pura dalle esuvie di muta e da cui si può estrarre il chitosano.
Ma perfino le feci del baco da seta sono fonti di enzimi, clorofilla e pigmenti vari.
Insomma, del baco si potrebbe utilizzare ogni prodotto, come si fa in Oriente, ma solo se l’allevamento è svolto in maniera corretta e controllata. In questo caso il baco da seta è un alimento di primaria qualità perché il gelso (in Europa) non è trattato con insetticidi, e perciò non se ne trovano residui nella larva o crisalide o seta. A maggiore ragione se ne dovrà favorire la produzione biologica per l’alimentazione, attraverso filiera certificata.
Noi abbiamo già messo a punto con ICEA un disciplinare per l’allevamento biologico, approvato dal MIPAAF (2015) e primo standard di gelsibachicoltura biologica al mondo.