Ho avuto il piacere di intervistare lo scrittore e antropologo della musica Luis Devin, che ha studiato antropologia culturale all’Università di Torino laureandosi con una tesi sui Pigmei Baka del Camerun, e ha conseguito un Dottorato di ricerca in etnomusicologia con una tesi sugli strumenti musicali dei Baka. È inoltre diplomato in Composizione, Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino.
Dal 1998 svolge ricerche antropologiche ed etnomusicologiche in Africa centrale, studiando in particolare la musica, i rituali tradizionali e le strategie di sopravvivenza dei Baka e di altri gruppi pigmei del bacino occidentale del Congo.
Un ragazzo che ha un bagaglio culturale “da paura”, per dirla in maniera molto giovanile, che trasmette l’entusiasmo per quello che fa, ma anche il sacrificio con cui lo fa, forse figlio di quei dogmi da “conservatorio” che regalano agli studenti doti inestimabili di “stacanovisti”.
Per l’editore Sonzogno è da poco uscito il suo ultimo libro: Ai confini del gusto.
Hai una preparazione sia musicale che antropologica, com’è nata questa “voglia-passione”?
Ho sempre studiato musica fin da piccolo, e poi al Conservatorio, dove mi sono diplomato in Composizione e in Musica corale. Quando anni dopo all’università ho conosciuto l’antropologia culturale e ho cominciato le ricerche sul campo in Africa centrale; è stato naturale unire le competenze musicali a quelle antropologiche che stavo acquisendo. È sorprendente quanto il contatto con l’alterità culturale possa modificare il tuo modo di vedere il mondo, gli altri, te stesso, i fondamenti stessi della tua esistenza. Il passo successivo è stato frequentare un dottorato in etnomusicologia, una materia che di fatto combina queste due aree del sapere e della ricerca.
Mi racconti il rapporto che hai con L’Africa? Episodi, aneddoti, il lato professionale dei tuoi viaggi ma anche quello personale…
Quando ti rechi sul campo, in una foresta pluviale africana o altrove, ti rendi conto abbastanza presto che il lato professionale delle tue esperienze è indissolubilmente legato a quello personale. È molto difficile ridurre tutto a una ricerca accademica, anche se magari devi farlo, che sia per una tesi di dottorato o per una pubblicazione scientifica. I tuoi cosiddetti “informatori” diventano spesso degli amici, i luoghi in cui ti immergi diventano parte di te, la ricerca stessa diventa la tua vita. Per questo motivo mi sono trovato spesso a raccontare anche il “dietro le quinte” delle ricerche: nel mio nuovo libro Ai confini del gusto ho descritto alcune delle preparazioni culinarie più “curiose” che si possono incontrare in giro per il mondo, dalle larve di termite vive che ho mangiato in foresta ai topi arrosto, nel mio libro precedente ho raccontato il rito d’iniziazione a cui mi hanno sottoposto i pigmei Baka (La foresta ti ha, Castelvecchi editore). In entrambi i casi l’esperienza personale prende il sopravvento sulla ricerca strettamente accademica. D’altronde i Baka mi hanno accolto nei loro accampamenti e nelle loro vite con infinita generosità, permettendomi non solo di compiere le ricerche ma anche di cavarmela in foresta, di procurarmi il cibo insieme a loro, di affrontare quotidianamente le piccole e le grandi sfide di una vita decisamente diversa dalla nostra. Vai nel cuore dell’Africa a studiare la musica pigmea, le danze, i riti, ma quello che conta alla fine sono i legami di amicizia che hai instaurato sul campo, le esperienze che hanno fatto di te un uomo diverso, che hanno cambiato inevitabilmente la tua vita. Così ogni volta che dovevo ripartire per tornare in Italia, nell’accampamento si consumava un piccolo dramma, commovente e doloroso, per una separazione che nessuno voleva fosse davvero per sempre.
Il tuo ultimo libro com’è nato? Nell’introduzione citi il Camerun come iniziazione, da lì è partito tutto?
L’idea del mio nuovo libro, Ai confini del gusto, è nata anch’essa insieme ai Baka e ad altri popoli con cui ho vissuto per alcuni periodi in Africa centrale. La dieta locale mi imponeva, non solo per curiosità antropologica e personale, ma per motivi di reale sopravvivenza, di mangiare tutto ciò che la gente mi offriva ed era felice di condividere con me: spiedini di bruco, chiocciole giganti, termiti, carne di scimmia e di coccodrillo, e così via. Per me, che ero abituato a mangiare poco o niente in termini di varietà gastronomica, è stata una rivoluzione dei sensi. Da quei giorni in foresta non ho più smesso di cercare e assaggiare ricette insolite e fuori dell’ordinario (dal nostro punto di vista), in qualsiasi contesto mi capiti di trovarmi. E poi ogni cibo ha storie da raccontare. È un formidabile concentrato di leggende, antropologia, geografia, credenze. Così nel libro ho cercato di trasmettere tutto questo, in chiave quasi narrativa. I cibi sono macchine del tempo, dispositivi per il teletrasporto. E, se glielo permettiamo, nutrono la mente tanto quanto il corpo.
Quando affronti questo tema, fuori dai contesti letterari, durante cene con amici ad esempio, quali sono le reazioni, in particolare quando parli di mangiare insetti?
Diciamo che da quando ho il frigo pieno di locuste, formaggi con i vermi e uova centenarie, gli amici tendono a declinare i miei inviti a cena… A parte gli scherzi, devo dire che non tutti sono restii a provare cibi insoliti, e anche quando l’interesse non si tramuta in un assaggio c’è comunque curiosità. Un giorno un’amica si è mangiata di gusto un gelato al latte umano che avevo appena preparato, grazie a un’altra amica generosa donatrice. Non me l’aspettavo. Un po’ più complicato, almeno tra i miei conoscenti, proporre piatti a base di insetti. Ma ci sto provando. In Liguria, la scorsa estate, mi è capitato di raccogliere grosse larve di punteruolo rosso, ai piedi di una palma infestata. Erano identiche ai “bruchi delle palme” che mangiavo con i pigmei Baka nella foresta pluviale del Camerun. Ero entusiasta! Quella sera ho acceso un fuoco in giardino e li ho fatti alla brace, sotto forma di spiedini, in un nostalgico tentativo di rievocare le notti africane. Ma ahimè nessuno ha voluto assaggiarli, così ho finito per mangiarli da solo tra gli sguardi interdetti degli amici. Sapevano di bacon. E sono convinto che se solo li avessero provati, senza pregiudizi, li avrebbero trovati ottimi.
Che idea ti sei fatto della reazione di disgusto, in particolare quando si tratta di insetti? Come conquistare il consumatore medio e riuscire a portarlo verso il loro consumo?
Il disgusto che proviamo per determinati cibi ha di solito motivazioni prettamente culturali, ha a che fare con i tabù alimentari della nostra società (o della nostra religione) e con le abitudini alimentari che abbiamo acquisito in famiglia, e più in generale nel nostro paese. È un disgusto acquisito, per così dire, e raramente nasce dopo aver assaggiato un alimento. In questo senso è profondamente irrazionale. Il fatto è che non è facile liberarsi dei pregiudizi che nutriamo per determinate categorie alimentari, ma quando vinciamo le nostre resistenze e ci concediamo l’opportunità di assaggiare un cibo davvero nuovo, succede qualcosa di straordinario, a prescindere dal giudizio dei sensi: il nostro cervello si espande, diventiamo persone più consapevoli, più aperte, più complete. “Quello che non conosci è proprio il piatto del menu che vale la pena di assaggiare”, ho scritto nel libro, e ai lettori, così come agli amici, propongo di mettersi alla prova, di disorientare le proprie aspettative culinarie, di esplorare nuove possibilità così da godersi, con il palato o anche solo con l’immaginazione, la sorprendente diversità gastronomica che il mondo ha da offrirci.
Per quanto riguarda gli insetti, che occupano buona parte del libro, abbiamo a che fare con un cibo estremamente interessante a diversi livelli (ecologico, nutrizionale, culturale e anche strettamente gastronomico), peraltro consumato come sappiamo da miliardi di individui in molti paesi del mondo. Purtroppo dalle nostre parti non godono ancora di buona fama, ed è un vero peccato. I motivi del rifiuto sono diversi: c’è chi è solito rigettare l’alterità tout court, in ogni contesto, c’è chi si chiede perché dovrebbe mangiare insetti quando abbiamo tradizioni gastronomiche tanto celebrate, c’è chi sarebbe concettualmente aperto all’idea di assaggiarli ma proprio non ce la fa, ecc. Onestamente non credo che una buona strategia di marketing, da sola, possa bastare a conquistare il consumatore medio italiano riguardo al consumo di insetti (non parlo ovviamente di consumatori sensibili alle tematiche ambientali o di curiosi esploratori del gusto). Confido però che i più giovani, magari nati in città multietniche in cui l’offerta alimentare è sempre più variegata, e cresciuti in contatto (reale o virtuale) con altre culture, abbiano una maggiore apertura mentale verso l’alterità gastronomica. Credo quindi che sia solo questione di tempo: prima o poi gli insetti saranno apprezzati anche da noi, come merita qualsiasi tradizione culinaria del pianeta.
Leggi gratuitamente l’introduzione e il primo capitolo di Ai confini del gusto ciccando qui