Chissà cosa pensò un Palermitano la prima volta che vide un Arabo mangiare il qas’at o quando lo vide unire con le mani del riso e della carne formando una pallina, probabilmente: “questi arabi, non hanno neanche le forchette, mangiano con le mani! In strada! Un siciliano non lo farebbe mai”. Bene, oggi questi due splendidi alimenti sono così tradizionali che quando dici Sicilia, ti vengono in mente cassata ed arancino, soprattutto quest’ultimo, padre -insieme al panino con la milza o con le panelle- dei primi cibi chiamati oggi “street food”. Altro che America.
Ad ogni modo non è questo l’argomento di questo articolo, serviva per sottolineare che nulla diventa tradizionale per magia, ogni cosa nel suo percorso temporale percorre una tortuosa trafila, innescando la curiosità di pochi e il diniego di molti; vi chiederete allora quando un prodotto passa dalla nicchia al largo consumo. La risposta è semplice: quando il mercato si accorge della sua esistenza, lo toglie dall’anonimato e lo rende più comune dell’aria che respiriamo. Pensate al sushi, se qualcuno negli anni ‘70 avesse offerto a mia madre del pesce crudo su del riso, la prima reazione sarebbe stata la tipica di chi oggi si trova davanti ad un punteruolo rosso della palma.
Il rifiuto che opponiamo al nuovo è storia già vista in passato, certo, non tutto poi entra nell’accettabilità, per quanto abili siano gli uomini della comunicazione (e abili sono). Pensiamo alla lotta al glutine: oggi in Europa il glutine è bandito, si dice faccia male. Ormai il termine “free” è alla base di ogni produzione nel mirino del terrorismo alimentare: gluten free, animal fat free, cruelty free, cercando di porre l’attenzione su qualcosa che dentro quel prodotto non c’è. Dico questo per porre l’entomofagia il più lontano possibile dal totalitarismo alimentare, dall’artificioso salutismo commerciale o dall’ortodossia vegana, perché l’entomofagia non ha la pretesa di cancellare migliaia di anni di tradizione agricola e zootecnica, ma quella di trovare i giusti equilibri tra risorse e sopravvivenza, l’entomofagia vuole inserirsi in un sistema produttivo per renderlo rigenerabile in tempi naturali, perché formulato così com’ è non ha prospettive certe.
L’entomofagia, oltre le qualità organolettiche degli insetti commestibili che non verranno approfondite in questo articolo, porta con sé aspetti positivi in ambito sociale, economico e ambientale, va intesa come uno strumento per aumentare l’efficienza che passa da un migliore utilizzo delle risorse disponibili. I sistemi zootecnici tradizionali e quelli agricoli per la produzione di mangimi richiedono enormi quantità di risorse e di spazi, che aumentano l’impronta ecologica dell’uomo. L’insetto come mangime, ad esempio, potrebbe essere un’alternativa economica e valida alla soia –che sta mettendo a rischio biodiversità agricole e forestali- come già accade in altre parti del mondo, con un enorme impatto in ambiti come quelli sociali, ambientali, economici e persino geopolitici.
Concludo questo mio primo intervento affrontando un aspetto fondamentale, ovvero i contorni del consumatore italiano (ma non solo) medio: un consumatore difficile da educare al nuovo, data la propensione a non informarsi o a prendere per sacra e incontrovertibile qualunque informazione, anche quella proveniente da fonti prive di qualunque autorevolezza. Basta pensare che la maggior parte dei consumatori non conosce la differenza tra miglioramento genetico e OGM, argomenti che hanno una distanza temporale di migliaia di anni e una distanza tecnica abissale. Già i romani infatti praticavano il miglioramento genetico sul grano, non serviva neanche un microscopio, bastava -e basta- prendere il polline di una cultivar e inserirla in un ovario di un’altra cultivar, insomma replicare qualcosa che qualsiasi impollinatore in natura fa, abbattendo al massimo fattori temporali o ambientali.
Il gioco è sempre lo stesso e lo conosciamo bene: prendere una paura tangibile e legarla ad argomentazioni utili ai fini commerciali.
La maggior parte delle persone attratte dai grani cosiddetti antichi, quei grani venduti come risposta ad un problema che non esiste, accetta argomentazioni che non conosce. Ma è solo uno dei tantissimi esempi.
Perché ho fatto tutti questi paragoni? Perché solo così si può capire la differenza tra uno strumento e un prodotto: un prodotto determina solo un miglioramento economico per chi lo vende, uno strumento determina un miglioramento collettivo.
Certo, gli insetti commestibili e i prodotti derivati si vendono e si venderanno per creare profitti, ma i profitti servono per invogliare le produzioni, non per crearne il contesto, a differenza della lotta al glutine, dei brand salutisti, del terrorismo alimentare in genere, che creano un contesto fittizio basato su paure studiate a tavolino per aumentare i profitti.
Se qualcuno dice che le emissioni di CO2 sono insostenibili, non ha la pretesa di vendere ossigeno in bottiglia come soluzione, ma quella di creare consapevolezza, ecco la differenza. La produzione e il consumo di insetti commestibili non producono un’alternativa alla paura, ma una soluzione collettiva ad un problema reale.
Simone Zucchi