Da decenni sentiamo parlare del nanismo aziendale e della struttura familiaristica dell’impresa italiana.
Siamo il Paese delle partite iva, e se per certi versi questo testimonia l’elevata propensione personale degli italiani a mettersi in gioco direttamente, a scommettere sulle proprie capacità, per altri versi questo è un problema che l’imprenditoria italiana ancora non è riuscita a risolvere. Prima di tutto culturalmente.
Questa sorta di democrazia imprenditoriale per cui “una testa una azienda” può certamente funzionare in determinate applicazioni per la maggior parte artigianali (anche su scala medio-grande), ma certo è un ostacolo in altri campi.
Capita sempre più spesso di ricevere telefonate da potenziali-imprenditori del settore insetti commestibili in cerca di suggerimenti e consigli, il che è un ottimo segnale dell’effervescenza del comparto. Quello che emerge fin da subito, però, è questa innata e implacabile voglia di far da sé, che naturalmente comporta sforzi giganteschi di ordine economico, di tempo, di ricerca e sviluppo, in fondo per dare alla luce un topolino. E’ vero che il volume occupato da tre elefanti o da cinquecento topolini è il medesimo (si passi la metafora bizzarra), ma si dice continuamente che uno dei grandi problemi dell’industria degli insetti commestibili sia l’impossibilità attuale di produrre quantitativi elevati di prodotto tali da soddisfare una richiesta che si quantifica in termini di tonnellate, il che si riflette ovviamente sul prezzo finale, al momento decisamente elevato. Cinquecento topolini non potranno in alcun modo singolarmente agire sui meccanismi che regolano il livello di quel prezzo, servono le cosiddette economie di scala…su una scala più grande di quella del topolino.
Tutto ciò non deve essere facile viatico per convincersi che allora servono nel settore quattro o cinque “big” e poi il mercato sarà saturo. Come ogni altra filiera, anche quella degli insetti commestibili si strutturerà con diverse dimensioni delle aziende coinvolte; rimane chiaro che la produzione industriale non potrà essere competitiva in quegli ambiti in cui l’artigianalità farà la differenza: chi produce abiti in serie (per quanto di ottima qualità) non potrà dedicare ai propri prodotti le stesse cure ed attenzioni della sartoria d’alta moda.
Queste poche righe sono un incitamento ad aprirsi all’idea di fare società con altri imprenditori, di mettere insieme le forze per crescere, per non disperdere energie e capitali nella ricerca di ciò che altri hanno già, magari mancando proprio di quel capitale e quelle energie per concretizzare.
Facile a dirsi, molti staranno pensando, ma nessuno dimentica che in un ambito assolutamente nuovo e innovativo come questo degli insetti commestibili, dove il know-how costa sangue e sudore, la prima reazione a questa idea è chiedersi per quale motivo si dovrebbe “condividere” il risultato del versamento di sangue e sudore propri. Rimanere ancora fermi a farsi questa domanda, però, significa accumulare svantaggio.
Serve ancora una dose di coraggio per sganciarsi da un modello fondato più sull’abitudine che su considerazioni razionali di medio-lungo periodo. E il coraggio supplementare non è qualcosa che manca a chi ha già deciso di essere un pioniere nel settore degli insetti commestibili…
L’industria degli insetti commestibili oltre il nanismo
[:it]3diFila sugli insetti commestibili al Prof. Franco Antoniazzi[:][:it]3diFila sugli insetti commestibili a Frankie Hi-NRG[:]